Nebojša Despotović, The Golden Harp, Solo Show, Installation view, MEF Museo Ettore Fico, Turin IT

Nebojša Despotović
The Golden Harp

Mostra e catalogo a cura di / Exhibition and catalogue curated by Andrea Busto
Testi di / Text by Andrea Busto, Eugenio Viola
Editore / Editor Iemme Edizioni, Napoli
In collaborazione con / In collaboration with Level 0 by ArtVerona 2019

Le opere di Nebojša Despotović sono inesorabilmente avulse da un contesto riconoscibile e, anche se tutte ci appaiono come estranee alla nostra vita, molte parlano di esperienze che riconosciamo, risultando come riflesse in uno specchio annebbiato ma famigliare. I personaggi/attori che le popolano recitano parti in cui l’artista stesso si immedesima, a tal punto, da assegnare dei nomi o dei nomignoli alle figure mentre le dipinge. Il fatto poi che sembrino personaggi in costume, li fa sembrare ancora più reali perché trasposti in un mondo senza tempo, senza precisi riferimenti al nostro vissuto e tutto appartiene a un momento infinito nella grande commedia della vita.

Mi sono chiesto talvolta se tutti questi uomini e donne e, soprattutto, bambini, fossero scaturiti dal mondo ebraico polacco dopo o immediatamente prima dei bombardamenti tedeschi a Varsavia, se fossero figli di una Londra sovradimensionata, o di anonime comparse del Novecento di Bertolucci. Il cinema Neorealista, L’albero degli zoccoli, Fellini appaiono anche loro come i maestri di Despotović che, con tutta la loro poetica, l’hanno aiutato nella ricerca e nella definizione della sua pittura.

Ogni sua opera, esaminata in profondità, appare come un’appropriarsi di mondi e poetiche altrui. Appare in alcune il mondo erotico di Scipione, la materia sovrapposta di Picabia e tutta la derisione del mondo borghese di Bunüel di Le chien andalou o del Fascino discreto della borghesia, appare anche lo stravolgimento espressionista del Dottor Caligari di Robert Wiene ma anche quello di Murnau, Lang e Pabst. I collegamenti sono quindi infiniti – il gioco di domino o di cadavre esquis, in cui una tessera si accompagna a un’altra e ne genera una terza e poi una quarta e così via, come le associazioni psicologiche in cui lo psicanalista ti chiede di associare immagini a altre immagini – così il lavoro dell’artista opera nella sua mente associazioni e legami formali, concettuali ed estetici che vanno “a briglia sciolta”, in modo automatico, metaforico, come in una scrittura mescalinica di immagini simili e conseguenti.

Egli si immerge mentalmente nel racconto dipinto sulla tela, per poi estraniarsene e, facendo un passo indietro, per riassumere la veste del creatore e quindi regista della scena. Il teatro, la pittura, la persona, i personaggi, il regista e gli attori, i ruoli e la vita, veri o falsi che siano vivono in un balletto mentale e reale che si esprime oltre la tela/sipario/fondale, oltre lo studio dell’artista, ma anche tutto dentro la sua mente.

Soprattutto gli interni, i salotti delle case raffigurate, sono scenografie di quinte teatrali dove si potrebbe recitare Ibsen (Casa di bambola), James (Ritratto di signora) ma anche Beckett (Aspettando Godot) e Jarry (Ubu Roi). Questi interni borghesi in cui vi è sempre una lampada, un tavolino, poltrone ridondanti, tappeti e lampadari, sono lo stereotipo della casa borghese, del luogo anonimo e incolore, pensati per lasciare più spazio alle tragedie familiari che non hanno bisogno di interni raffinati e di oggetti scelti e personali, di quadri importanti e di autori riconosciuti. Il luogo assume lo stato di “non luogo”, di deserto ammobiliato, potrebbero essere dune di sabbia di un deserto o rocce di montagna. Questi non luoghi sono la scenografia per i personaggi raffigurati che potrebbero, in modo fantasmatico, trasmigrare da un’opera all’altra.

Questa “famiglia”, disseminata per tutte le opere, si conosce e si riconosce attraverso lo sguardo dell’artista e, per associazione, anche nel nostro. Le assonanze e le similitudini ci appaiono, dopo aver guardato tutta la sua produzione, come evidenti: fratelli separati in una tela vengono ricongiunti in un’altra; partenti dispersi si ritrovano proprio in quei salotti piccolo borghesi ritagliati in colori monocromi secondo la lezione della Stanza rossa di Matisse; animali e vicini di casa, artigiani ubriachi, burattini e burattinai legnosi, macellai e saltimbanchi stravolti si assommano in scene della stessa pièce teatrale ripresa in infinite recite sul suo palcoscenico. Appare quindi tutto il corpus delle opere come un lungo e ininterrotto racconto dovstojevskiano in cui i personaggi raffigurati appaiono e scompaiono da un capitolo all’altro popolando un mondo in cui arbitrariamente lo spettatore mette in scena la propria analisi e il proprio psicodramma. Queste opere appaiono, oltre alla struggente bellezza dei dipinti in quanto tali, come tavole di Rorschach. Il lusso, la calma, la voluttà e la gioia di vivere di matissiana memoria, con il parossismo e gli eccessi contemporanei, appaiono evidenti in questo popolo orgiastico e pagano in cui nulla riporta alla classicità ma al nostro tempo reale traslato nella scena di una commedia con una regia ben calibrata.

Nebojša Despotović‘s works are inexorably detached from a recognizable context and, although they all appear to us like strangers to our lives, many speak of experiences that we recognize, resulting as if reflected in a foggy but familiar mirror. The characters/actors who populate the paintings act parts in which the artist identifies himself, to such an extent, that he assigns names or nicknames to the figures as he paints them. The fact that they look like characters in costume makes them seem even more real because they are transposed into a timeless world, without precise references to our experience and everything belongs to an infinite moment in the high comedy of life.

I had sometimes wondered if all these men and women and, above all, children, came from the Polish Jewish world after or immediately before the German bombardments in Warsaw, if they were children of an oversized London, or of anonymous background actors from Bertolucci’s 20th century. Neorealist cinema, The Tree of Wooden Clogs, Fellini also appears as the masters of Despotović who, with all their poetics, helped him in the research and definition of his painting.

Each of his works examined in-depth, appears as an appropriation of the worlds and poetics of others. In some of them the erotic world of Scipio, the superimposed matter of Picabia and all the mockery of the bourgeois society of Bunüel in Le Chien Andalou or Le charme discret de la bourgeoisie, also the expressionist outbreak of Dr. Caligari by Robert Wiene appears, but also that of Murnau, Lang, and Pabst. The connections are therefore infinite – the game of dominoes or esquis cadavre, in which one card comes after by another, generates a third and then a fourth and so on, just as the psychological associations in which the psychoanalyst asks to associate images with other images – so the artist’s work operates in his mind associations and formal, conceptual and aesthetic links that go “loose bridle”, in an automatic, metaphorical way, as in a mescaline writing of similar and consequent images.

He mentally immerses himself in the narrative painted on the canvas, only to then alienate himself from it and, taking a step back, to sum up, the role of the creator and, therefore, director of the scene. The theatre, the painting, the person, the characters, the director and the actors, the roles and the life, real or fake as they are, live in a mental and real ballet that expresses itself beyond the canvas/curtain, beyond the artist’s studio, but also everything inside his mind.

Above all, the interiors, the living rooms of the houses depicted, are stage sets where one could play Ibsen (Doll’s House), James (Portrait of a Lady), but also Beckett (Waiting for Godot) and Jarry (Ubu Roi). These bourgeois interiors in which there is always a lamp, a coffee table, redundant armchairs, carpets, and chandeliers, are the stereotype of the bourgeois house, of the anonymous and colorless place, designed to leave more room for family tragedies that do not need refined interiors and chosen and personal objects, essential paintings, and recognized authors. The place assumes the status of “non-place”, of a furnished desert, they could be desert sand dunes or mountain rocks. These non-places are the scenography for the characters depicted who could, in a phantasmatic way, transmigrate from one work to another.

This “family”, scattered throughout all the works, is known and recognized through the artist’s gaze and, by association, in ours as well. The similarities appear to us, after having looked at all his production, as evident: brothers separated in one canvas are reunited in another; dispersed departures are found in those small bourgeois salons cut out in monochrome colors according to the lesson of Matisse’s Red Room; animals and neighbors, drunken artisans, wooden puppets and puppeteers, butchers and jugglers are summed up in scenes from the same play filmed in endless plays on his stage. The whole corpus of the works appears as a long and uninterrupted Dovstojevskian tale in which the characters depicted appear and disappear from one chapter to another, populating a world in which the spectator arbitrarily stages his own analysis and psychodrama. These works appear, in addition to the poignant beauty of the paintings as such, as Rorschach’s plates. The luxury, calm, voluptuousness, and joie de vivre of Matisse’s memory, with its paroxysm and contemporary excesses, appear evident in this orgiastic and pagan people in which nothing brings back to classicism but to our real-time translated into the scene of a comedy with a well-calibrated direction.

Dates
25.09.2020 – 20.06.2021


Location
MEF Museo Ettore Fico
Via Francesco Cigna 114, Torino


Artist
Nebojša Despotović



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Installation view and Artworks

Nebojša Despotović, The Golden Harp, Solo Show, Installation view, MEF Museo Ettore Fico, Turin, IT
Nebojša Despotović, The Golden Harp, Solo Show, Installation view, MEF Museo Ettore Fico, Turin, IT
Nebojša Despotović, Riposo (Golden Harp), 2019, oil on canvas, 140 x 112 cm